Possiamo ancora insegnare qualcosa alle nostre figlie? O abbiamo finito i riferimenti?
Eravamo in montagna, siamo andati alla pista di pattinaggio perché ormai sciare costa un botto. E in quattro ci toccherebbe tirare a sorte mentre gli altri aspettano in un parcheggio. Non è escluso che lo faremo, prima o poi.
Quando usciamo troviamo una scena strappalacrime: una delle tizie della pista di pattinaggio è con una bambina piccola, una nanerottola tutta spaurita, facciamo di 4 anni.
La tizia spiega al collega: «Questa bambina si è persa, l’ho trovata fuori nel parcheggio.»
E il tizio: «Dimmi bambina, come si chiama la tua mamma?»
«Abelarda» (nome di finzione ovviamente, che richiama comunque la connotazione distrazionale)
«Bene, adesso la chiamiamo al microfono.»
Speriamo che sia finita bene, anche perché noi nel frattempo siamo andati alla macchina.
Però mi son detto, ehi sia la Cate che la Luci sono rimaste impressionate. È un momento topico per far imparare delle lezioni alle mie figlie. Quante volte abbiamo parlato del “se ti perdi, cosa faiiii?”
«Ragazze, avete visto che è successo?»
«Cosa papà, cosa.»
Poi però penso, quella lezione l’hanno già imparata. Inutile soffermarci.
«Quella povera bambina stressava sempre i genitori. Chiedeva un sacco di giochi anche se le feste sono finite, non era mai contenta. E i genitori l’hanno lasciata nel parcheggio e son partiti.»
Francesca mi guarda con due occhi così. «Ma cosa stai…»
«E quindi cosa abbiamo imparato oggi? Stare umili. Sapersi accontentare.»
Oh, io ci provo. Magari funziona (seee, come no).
Considerazioni:
a) a ben vedere non ci sono elementi che contraddicano la mia versione della storia;
b) alla fine è la storia di Pollicino. Anche se la fiaba non è chiara al riguardo, in verità Pollicino era pieno di pretese;
c) forse i genitori della bambina hanno tirato a sorte anche loro per andare a sciare, e la bambina li stava semplicemente aspettando nel parcheggio